13 marzo 2020, Milano.
Quinto giorno di quarantena, e la vita indossa altri abiti. Tutto sembra così diverso, in realtà tutto è diverso.
La quotidianità ha un altro volto.
Ha una luce ineguale.
Uno sguardo impaurito, perso, livido.
Il mio Paese, il mondo intero, si trova a dover fare i conti con un virus, il Corona virus.
Ci arriva da un pipistrello della Cina e sta mettendo in ginocchio l’intera umanità.
Purtroppo, si sta estendendo in tempi rapidi; non risparmia nessuno, asintomatici, sintomatici, tutti in un modo o nell’altro sono stati contagiati, o lo saranno presto. Probabilmente anche in questo istante qualcuno sta entrando in contatto con questo male del secolo.La speranza è che l’involucro che lo ospiterà possa reagire sconfiggendolo. Molti, però, non ce l’hanno fatta, e tanti altri, purtroppo, non ce la faranno.
In questo solitario giorno, il quinto di tanti altri che verranno, nella mia testa, nel mio animo, nel mio cuore, si affacciano variegate domande, multiformi pensieri… “Sarà la scelta giusta? Devo abbandonare la strada che sto percorrendo? E se stessi sbagliando? E se fosse solo un passaggio, questo?” “Se nel frattempo, quella porta decidesse di chiudersi per la folata di vento, che ahimè sento vicina, ed io comprendessi solo troppo tardi che era quella la porta da varcare, lo spazio in cui rimanere, che ne sarà del mio apparente, nonché finto, equilibrio?”
Se, se, se, e se allora, e se fosse stato…
Questa declinazione appartiene ad un tempo che non contempla l’ora, l’adesso, il presente.
Il ‘se’ si eleva al forse… continente di un mondo che non esisterà mai.
Ma io, in quel “se”, vorrei creare la storia parallela, per vederci una fine. Di cui ad oggi pavento l’esito.Qualcuno diceva che non è mai troppo tardi per essere ciò che avremmo voluto essere…
Penso che il tempo sia un omaggio pregevole, che non dovremmo sprecare.
Scavo nella parte più profonda, risalgo dall’abisso a fatica, ma la voce interiore mi riporta giù, sprofondando nuovamente nel buio. Cerco di tenermi, ma una parte di me è stanca di riempire più lo stomaco che il cuore. Lotto contro me stessa, scappo, cerco la via che mi permetta di avanzare anche da bendata. Gli occhi non osano vedere, non osano osservare la realtà circostante.
Hanno paura, temono di scoprire che in tutto questo tempo l’anima ed il suo cuore non abbiano vissuto, ma solo vegetato, bloccati in una bolla di sapone, così confortevole, leggera e trasparente, ma non così limpida da permettere di scrutare la tangibilità dell’esistenza. Pensavo che questo periodo sarebbe stato filantropo, caritatevole con la mia persona, che da troppo tempo ha scelto di non respirare, accantonando il cuore. Questo tempo, le cui pareti somigliano ad una prigione, mi costringe ad arrestare la corsa, a scomparire nei meandri di pensieri intricati, gli stessi che ho tentato di alienare più volte, separandoli dal mio mondo e relegandoli in un cassetto chiuso a chiave.
Tentavo di distanziarli, rimandandone la contemplazione.
Sapevo che prima o dopo avrei dovuto scontrarmici, ed ero consapevole che la mia vita fosse molto più di quello che mi concedevo.
E intanto il tempo fluiva, scorreva, danzava ad un ritmo insostenibile.Ero abile a soffocarlo, a lasciarlo andare.
Sono arrivata fin qui senza rendermene conto. Procedevo spedita, a testa china sull’asfalto, senza mai alzare gli occhi, senza mai abbandonarmi al mondo circostante, senza rendermi conto di trovarmi ai piedi del declivio di un precipizio. Sarebbe bastato un passo falso per cadervi dentro, ma ero troppo diligente. In realtà lo fu il mio inconscio, e quel passo storto non l’ho mai appoggiato, non sono crollata, e così mi sono salvata. E ora mi ritrovo qua, a contemplare quel pittoresco tempo passato, e per la prima volta distinguo le forme di una strada sconosciuta, che alita dietro le mie spalle e, come lo strascico di un abito da sposa, continua ad indicare un tracciato che ho ignorato, quel cammino che ho serrato, immemore nei miei ricordi, ma non in quelli dell’inconscio, che in qualche modo ha sempre cercato di mantenere in vita, lanciandomi avvisaglie, di tanto in tanto, che rendevano inconsapevolmente buie le mie giornate, motivo di tanto vuoto.
Un canto dai suoni di plutonio! Ogni nota di quella canzonetta aromatizzava la mia pelle, sentivo addosso una solitudine illeggibile, a tratti non comprensibile.
Valentina Di Maro