Molto dipenderà dalle scelte politiche di questi giorni, ma è chiaro che dovremo trovare e sperimentare nuove regole di convivenza, ripensando le modalità del lavoro e le forme dell’interazione sociale a cui eravamo abituati. Le norme di distanziamento sociale e la contrazione degli spostamenti individuali non rappresenteranno, molto probabilmente, una semplice parentesi nelle nostre vite, ma un fatto con cui convivere che condizionerà le libertà tipiche di un regime democratico.
L’individuazione di un punto di equilibrio tra libertà individuali e sicurezza collettiva è un dilemma classico per le democrazie moderne, che oggi evidentemente richiede un nuovo bilanciamento che preservi sia la salute pubblica, sia i principi di libertà che sono a fondamento delle democrazie liberali. E come sempre accade in politica è qui che emerge uno scambio chiaro: quanto siamo disposti a sacrificare delle nostre libertà individuali al fine di ottenere una maggiore sicurezza “fisica”? Quanto giustificabili sono, ai nostri occhi, misure che restringono (anche radicalmente) le nostre libertà individuali al fine di proteggere la salute pubblica?
Le previsioni non sono delle migliori: la disoccupazione nel mondo cresce in modo rapido ed esponenziale, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima in almeno 25 milioni i posti di lavoro persi, il Pil italiano rischia di perdere almeno il 10% in un anno. Un quadro più definito dei cambiamenti sul fronte dell’occupazione potremo averlo ad emergenza terminata. E ci sono ancora molti punti interrogativi che non consentono di rispondere in modo chiaro alla domanda sul nuovo modello di lavoro che andrà a delinearsi nel post-pandemia da Covid-19. Primo tra tutti la durata dell’emergenza, durata che è fondamentale sia per il cambiamento delle abitudini delle persone sia per la tenuta o meno del tessuto produttivo. E alla durata va affiancata anche la natura e l’ampiezza dei provvedimenti economici, fiscali e normativi che verranno presi, dai quali dipenderà molto del nostro futuro in un momento in cui la crisi è generalizzata e coincidente, in buona parte, con uno stop involontario delle attività produttive.
Provando ad analizzare i cambiamenti che i mesi del Covid-19 porteranno nel mondo del lavoro, individuiamo alcune traiettorie che occorrerà monitorare. Proviamo a ripercorrerle partendo dal livello micro per arrivare a quella macro.
Il primo elemento riguarda i cambiamenti di abitudini legate al lavoro che stanno caratterizzando le ultime settimane. In particolare la radicale separazione tra esecuzione della prestazione lavorativa e il luogo di lavoro. Questo ovviamente vale per coloro che hanno avuto la possibilità di lavorare in modalità remota, ma parliamo di diversi milioni di persone. Al ritorno alla normalità sarà tutto come prima? Coloro che quotidianamente si recavano da pendolari al lavoro con lunghi viaggi pretenderanno di continuare, almeno in parte, il lavoro da casa? La presenza fisica sarà soppiantata dall’abitudine alle videoconferenze e dall’utilizzo di tecnologie poco usate in precedenza? Non sappiamo ancora le risposte ma è facile capire come il loro impatto potrà essere massiccio. C’è chi parla di fine dell’economia (e quindi del lavoro) face-to-face e chi invece sostiene che la riduzione forzata della socialità alimenterà il desiderio stesso di socialità: vedremo quello che accadrà.
C’è poi un livello relativo alla ridefinizione dei settori produttivi che dipenderà molto sia dalla durata dell’emergenza, e dei relativi provvedimenti, sia dall’effettiva diffusione dei nuovi modi di lavorare di cui abbiamo detto sopra. Settori quali le telecomunicazioni, l’IT, le piattaforme digitali, l’energia, gli alimentari, stanno crescendo mentre altri, quelli più legati a una esperienza fisica e relazionale, che in queste settimane è inibita, pagheranno pesanti conseguenze, perché ogni caffè non bevuto è perso. Il riferimento è, appunto, a settori come la ristorazione, il turismo, il commercio al dettaglio. Ma non finiranno certo i bisogni ai quali davano risposta, è del tutto evidente. Occorrerà quindi prestare attenzione a come i settori si reinventeranno e quali nuove realtà nasceranno perché potrà essere, a voler guardare alla crisi come opportunità, la possibilità di un rinnovamento (anche digitale). Per questo però occorreranno gli adeguati supporti economici e finanziari che consentano anche a realtà piccole di restare in piedi o di nascere. Il lavoro seguirà queste traiettorie, di pari passo.
L’ultimo livello, quello più ampio e ancor più difficile da cogliere oggi è come saranno riorganizzate le catene globali del valore e i corrispettivi mercati del lavoro internazionali. Non sappiamo se ci ritroveremo con confini più aperti o più chiusi, con reshoring di produzioni o con la definitiva delocalizzazione di una produzione manifatturiera anch’essa molto colpita da questa emergenza. Il futuro del lavoro risentirà molto di queste dinamiche, sia in termini di domanda di competenze che di mobilità internazionale.
Questi alcuni spunti cui guardare.
Ma c’è un ulteriore aspetto, più ampio e profondo che sta emergendo. Riguarda la fragilità del mondo interconnesso che fa sì che un problema e una crisi non siano mai una crisi di una parte, ma immediatamente (e il fattore tempo è emerso chiaramente questa volta) una crisi del tutto. Non che sia una novità, il rischio e l’incertezza che caratterizzano la contemporaneità sono analizzati da decenni, ma forse questa volta ce ne siamo resi conto tutti e con tutta la loro portata. Per questo occorre ripensare le tutele da sempre connesse, nel Novecento industriale, al posto di lavoro e soprattutto a un modello standard di contratto di lavoro. Oggi in un mercato del lavoro frammentato inserito in una società instabile non è più possibile scaricare il rischio su tutti i lavoratori che non scelgono un modello standard, come invece si è sempre fatto. Occorre ripensare a un set di tutele legate a chiunque si voglia affacciare, nelle diverse forme, al mercato del lavoro in modo che non vi siano dualismi legati ai settori cui appartiene (è palese in questi giorni la condizione svantaggiata dei lavoratori domestici, ad esempio) o alla modalità di lavoro adottata (pensiamo ai lavoratori autonomi, ai tirocinanti, ai collaboratori). Questo sarebbe un importante passo avanti per adeguare il mercato del lavoro alla possibilità di cambiamenti imprevedibili che l’emergenza di questi mesi ci ha messo in modo molto chiaro davanti agli occhi.
Quindi l’impatto della pandemia da Covid-19 sulla vita dei cittadini italiani è stato drammatico. All’emergenza sanitaria già in atto, si è aggiunto il fantasma di una crisi economica epocale, i cui effetti, si stima, saranno peggiori di quelli della grande recessione del 2008. A queste dimensioni più evidenti e per certi versi più urgenti, si aggiungono poi il profondo impatto sul nostro tessuto sociale e sul futuro politico dell’Italia.
La pandemia ha eroso il benessere individuale delle persone, generando insicurezza, senso di abbandono e solitudine. Per quanto meno visibili, si tratta di conseguenze che potrebbero essere rilevanti per la tenuta del tessuto sociale. Reti di contatto e sentimenti di appartenenza potrebbero infatti indebolirsi, generando alienazione e isolamento sociale.
Ilaria Gervasio