Il cervello è una “macchina” straordinaria.
Quante volte abbiamo sentito questa frase. Al punto che oramai non facciamo più
caso al fatto che, per caratterizzarlo positivamente, lo associamo, appunto, ad
una macchina.
Non si tratta solo di un aspetto semantico, ma generazionale. Agli albori
dell’era informatica era il contrario. Ci riferivamo al “calcolatore”
come “cervello elettronico”.
È normale: si tende a descrivere il mondo con ciò che ci è più vicino
intellettualmente. Ed ora siamo più vicini alle macchine.
Il cervello umano, comunque, ha alcune caratteristiche molto simili a quelle di
una macchina. Prima di tutte la fatica, intesa come “lavoro”. Ogni pensiero è
possibile solamente con dispendio energetico. Ma soprattutto: nessuna macchina
può fare più lavoro dell’energia impiegata per farlo, anzi sempre un po’ meno.
Ogni processo di trasformazione dell’energia in lavoro produce una perdita in
calore (entropia).
Anche il nostro cervello, proprio per questo, tende a fare meno fatica
possibile per garantire la sopravvivenza dell’organismo che lo ospita: stimola
la fame, il sonno, la paura. Mai non vi spingerà spontaneamente ad arrivare
primo in una maratona, o a trattenervi dall’ordinare un tripudio di patatine
fritte. Ogni “forzatura” agli stimoli che ci arrivano da esso sono
“educazione”. Educazione al sacrificio per un bene più elevato, o percepito
come tale. Così l’umanità ha accettato di buon grado anche le pene della
convivenza (come per molte altre specie animali), e attraverso essa, con la
tecnologia ed il progresso, ha potuto massimizzarne i vantaggi.
Oggi siamo così abituati ed assistiti dalla tecnologia, che tendiamo sempre
meno allo sfruttamento del nostro cervello, al punto che non vede l’ora di
mettersi in modalità “risparmio energetico”. Questo ci rende molto più inclini
a lasciarci vivere, piuttosto che fare fatica e scegliere come vivere.
Dopotutto quello che conta è vivere. Come specie non siamo naturalmente
predisposti a pensare al futuro, ma solo alla soddisfazione dei bisogni
impellenti. In natura se non sopravvivi ora, non ci sarà alcun dopo. Provate a
far capire ad un adolescente dagli ormoni impazziti che deve studiare adesso,
per assicurarsi un buon lavoro fra dieci anni… Insomma il cervello odia la
fatica e la evita come la peste.
Ogni sviluppo tecnologico è basato proprio su questo: fare meno fatica
possibile. In tutto. Anche nell’arte siamo passati dagli anni necessari per
produrre il David, o la Gioconda, a qualche ora di un Pollok. Poiché il fine
nell’arte è l’espressione emotiva, tanto minore è lo sforzo per produrre
l’emozione, tanto maggiori saranno le emozioni prodotte.
L’efficienza governa il mondo.
Ma allora che cosa ci spinge a forzare questo meccanismo quando ci imponiamo
fatiche improbe?
Domanda interessante.
Freud riprendendo il pensiero di Schopenhauer, afferma che in noi abitano due
“io”. L’io individuo e l’io della specie e sono in netta antitesi
l’uno con l’altro.
Da un lato siamo funzionari di specie, e quindi dobbiamo contribuire alla
sopravvivenza della stessa rischiando meno possibile, dall’altro abbiamo l’io
individuale che, in apparente disaccordo con questo principio, rischia. Ma di
brutto, brutto, brutto (come direbbe Aldo).
Alcuni, come ad esempio i piloti sportivi, rischiano anche la vita per
dimostrare di essere i migliori; altri rischiano un po’ meno partecipando alle
Olimpiadi di Matematica. Ma comunque il rischio c’è. Che si tratti di una
semplice figuraccia, o della stessa vita, alcuni hanno questo irrefrenabile
desiderio di competere. Questa caratteristica inserita nelle specie è
interessante proprio per il suo essere comune, sí, ma non troppo.
Ci vuole equilibrio.
Equilibrio fra chi tende a premiare il proprio ego con la gratifica del
riconoscimento sociale, e la specie che apparentemente se ne frega.
Se in una partita di calcio nessuno volesse fare il pubblico, ma volessero
giocare tutti, ci sarebbero gli spalti vuoti, ma il campo un po’ troppo affollato…Viceversa,
se fossero tutti nelle tribune non ci sarebbe nessuno da guardare.
È proprio la differente attitudine del singolo, che nel processo evolutivo
porta vantaggio alla specie. Ma è necessario specificare quale sia il
“vantaggio”.
Già, perché la specie è in grado di adattarsi all’ambiente (sociale)
selezionando gli esemplari che meglio rispondono alle esigenze, proprio di quell’ambiente,
e non ad altro.
Questo è un passaggio cruciale perché essere il migliore a giocare a calcio non
ha alcun valore qualitativo in sé, ma identifica solamente gli esemplari migliori,
che meglio rispondono a quel particolare ambiente: il campo da calcio.
In natura, per esempio, il mimetismo riesce a far assomigliare sempre più un
insetto ad uno stecco, in una corsa lunga secoli che al traguardo avrà come
premio la vita, ma alla fine il povero insetto risulterà tutt’altro che bello.
Allo stesso modo ogni conseguenza sociale, figlia del nostro torpore
intellettuale e della “modalità risparmio energetico”, sfuggendo quindi alla
nostra volontà cosciente, potrebbe selezionare campioni di opportunismo e, sì,
tenerci in vita come specie, ma imbruttirci parecchio, come il povero insetto
stecco.
Io ritengo che proprio il salto evolutivo fatto da noi come specie umana, debba
renderci invece “coscienti” rispetto a questo processo, e consentirci di poter
dire la nostra.
Vorrei poter aspirare ad essere più carino di un animaletto che assomiglia ad
un rametto secco.
In sostanza credo che il nostro dovere, anche se siamo parte della natura
come “elementi” auto-selezionati, sia quello di contrastare quanto
possibile la modalità risparmio energetico del nostro cervello, riabituandoci
alla fatica di pensare.
Purtroppo, completamente opposta a questa direzione, anche la scuola sta abdicando dal suo naturale ruolo educativo, a favore di uno prettamente nozionistico. Non serve affatto che si sappia il perché delle cose, basta sapere il come.
Questa deriva naturale mi atterrisce in quanto, nonostante lo ritenga un
processo entropico irreversibile (leggi qui…), dentro di me urla
incatenata la voglia di essere qualcosa di più. Forse, dopotutto, e la stessa
voglia che mi spinge a scrivere, nella speranza di non essere uguale agli
altri, ma con la necessità, ancora più impellente, di non essere l’unico.
Se giocare a calcio con tutta la gente delle tribune risulterebbe impossibile,
farlo da solo sarebbe del tutto inutile e insignificante.
C’è bisogno di entrambi.
Oppure sono solo un ingranaggio che gira male, o fuori sincro, in un meccanismo
complesso che tende a minimizzare gli attriti. In un motore efficiente, ogni
utilizzo di energia non convertita in movimento è considerata una perdita. In
quest’ottica, nell’economia della specie, i sentimenti (come il calore per il
motore termico) sono uno spreco.
Ma io vorrei che questo anacronistico scoppiettio inquinante esalasse la suo
ultimo fumo.
Vorrei che l’affermarsi della tecnologia elettrica per le auto, coincidesse
anche con un nuovo modo di usare energia pulita, per muovere le menti, ripulite
pure loro.
Vorrei più di tutto avere la certezza che non perderemo mai la voglia di
rischiare di perdere, perché è l’unico modo per provare a vincere.
Già, bisogna rischiare… Ma di brutto, brutto, brutto.