Tra i clienti c’è un miliardario egiziano condannato per avere commissionato l’omicidio dell’ex fidanzata. Poi i figli dell’ex dittatore del Cairo, Hosni Mubarak, e l’ex “padrino” della Borsa di Hong Kong, finito in carcere per corruzione. E ancora un tecnico informatico svedese riconosciuto colpevole di traffico di esseri umani nelle Filippine, un uomo d’affari dello Zimbabwe vicino all’ex dittatore Robert Mugabe e politici corrotti di paesi come Ucraina e Venezuela. In tutto, 18mila conti aperti in Credit Suisse dagli anni ’40 al decennio scorso, riconducibili a 37mila persone e società che hanno nascosto circa 100 miliardi di euro.
A condurre l’inchiesta, ribattezzata Suisse Secrets, è stata l’Organized crime and corruption reporting project (Occrp), consorzio di 47 testate internazionali, tra cui il britannico Guardian, il francese Le Monde e le italiane La Stampa e IrpiMedia. A innescarla sono state informazioni consegnate da una fonte interna anonima. “Ritengo che le leggi svizzere sul segreto bancario siano immorali”, ha commentato la fonte. “Il pretesto di proteggere la riservatezza finanziaria è solo una foglia di fico che copre il ruolo vergognoso delle banche svizzere come collaboratrici degli evasori fiscali”.
I clienti italiani di Credit Suisse e il Vaticano
Nello scandalo sono coinvolti anche 700 clienti italiani. Secondo IrpiMedia, i loro nomi, non molto noti, rivelano “uno schema”: sono perlopiù domiciliati o residenti all’estero. A volte per davvero, a volte solo per pagare meno tasse. Molti di loro hanno interessi nei settori petrolifero, minerario e del gaming. Tra i clienti, scrive La Stampa, c’è anche un uomo d’affari sospettato di riciclare i soldi della ‘Ndrangheta, assolto poi nei processi. Le autorità svizzere, rileva il quotidiano, nell’occasione “non hanno cooperato”.
Un conto appartiene poi al Vaticano. È stato utilizzato, scrive il Guardian, “per un sospetto investimento fraudolento in una proprietà londinese”, al centro di “un processo in corso con molti imputati, tra cui un cardinale”. Il Fatto quotidiano scrive che il riferimento è alla vicenda che coinvolge il cardinale Angelo Becciu.
Il problema della segretezza
Il Guardian riporta anche la dichiarazione di un ex dipendente di Credit Suisse, che ha denunciato l’abitudine di “girarsi dall’altra parte” di fronte a clienti “problematici”, radicata nel sistema bancario svizzero. Le banche, secondo la fonte, erano “maestre della negazione plausibile”, ovvero attente a potersi sempre dichiarare estranee alle eventuali attività illecite dei clienti. “Non ponevano mai domande di cui non volevano conoscere la risposta.”
L’inchiesta Suisse Secrets riapre del resto la questione della segretezza delle banche svizzere. Una legge introdotta negli anni ’30 permetteva agli istituti di non condividere informazioni sui clienti stranieri con altri governi. Una norma che ha aiutato gli istituti del Paese ad accumulare 7.900 miliardi di franchi di asset in gestione (circa 7.600 miliardi di euro al cambio attuale), di cui 2.300 miliardi da clienti stranieri.
Nel 2017, dopo diversi scandali, la Svizzera si è adeguata allo standard internazionale per la condivisione dei dati fiscali (Common reporting standard, Crs). L’accordo non include però tutti gli stati del mondo, e lascia fuori soprattutto paesi in via di sviluppo.
“Il Crs impone un peso finanziario e infrastrutturale sproporzionato sui paesi in via di sviluppo e consolida la loro esclusione dal sistema nel prossimo futuro”, ha detto l’informatore di cui abbiamo parlato. “Questa situazione favorisce la corruzione e riduce alla fame paesi in via di sviluppo che hanno un gran bisogno di gettito fiscale. Questi paesi sono i più penalizzati dal comportamento da ‘Robin Hood alla rovescia’ della Svizzera”.
Una questione svizzera?
Il Tax Justice Network, gruppo di pressione che lotta contro l’evasione fiscale, calcola in oltre 18 miliardi di euro le entrate fiscali perse dai governi mondiali a causa dei conti in Svizzera. Il Financial Secrecy Index, indice del livello di segretezza finanziaria elaborato dallo stesso Tax Justice Network, colloca la Svizzera al terzo posto a livello mondiale, dietro alle Isole Cayman e agli Stati Uniti.
Dopo la pubblicazione dei primi articoli sul caso Suisse Secrets, il Partito popolare europeo (Ppe), il più rappresentato nel Parlamento europeo, ha proposto di inserire la Svizzera tra i paesi ad alto rischio riciclaggio. “Le banche europee e svizzere hanno stretti legami”, ha detto Markus Ferber, portavoce del Ppe nella Commissione per i problemi economici e monetari. “Le carenze del settore bancario svizzero in fatto di anti-riciclaggio pongono perciò un problema anche per il settore finanziario europeo. Quando le banche svizzere non applicano a dovere gli standard anti-riciclaggio internazionali, la Svizzera stessa diventa una giurisdizione ad alto rischio. La prossima volta che bisognerà rivedere la lista dei paesi terzi ad alto rischio riciclaggio, la Commissione europea dovrà prendere in considerazione l’inserimento della Svizzera”.
I precedenti
L’inchiesta Suisse Secrets arriva in un momento già difficile per Crédit Suisse. Solo nell’ultimo anno è stata multata per centinaia di milioni di dollari per il suo ruolo in uno scandalo in Mozambico. È anche sotto accusa per avere aiutato la mafia bulgara a riciclare il denaro ricavato dal traffico di cocaina. Poche settimane fa l’amministratore delegato, Antonio Horta-Osorio, si è dimesso per essere volato ad assistere alla finale del torneo di Wimbledon senza rispettare le regole per gli ingressi dall’estero.
In passato è emerso che tra i suoi correntisti ci siano stati l’ex dittatore delle Filippine, Ferdinand Marcos, e quello della Nigeria, Sani Abacha, che ha nascosto in Svizzera oltre 200 milioni di dollari. Nel 2014, come ricorda Il Post, la società aveva accettato di pagare sanzioni miliardarie alle autorità statunitensi per avere aiutato cittadini americani a presentare false dichiarazioni dei redditi ed evadere le tasse. È stata sanzionata poi per oltre mezzo miliardo di dollari per avere aggirato le sanzioni statunitensi contro paesi come Iran e Sudan.
La replica di Credit Suisse
Credit Suisse ha diffuso una nota in cui “respinge fermamente le accuse e le deduzioni sulle sue presunte pratiche commerciali. Le questioni presentate sono in gran parte datate e in alcuni casi risalgono addirittura agli anni ’60 e a epoche in cui le leggi, le pratiche e ciò che ci si attendeva dalle istituzioni finanziarie erano molto diversi rispetto a oggi”.
La nota aggiunge che gli articoli pubblicati dalle testate del consorzio sono “basati su informazioni parziali e selezionate”, prese “fuori contesto”, che portano a “interpretazioni tendenziose della condotta della banca”. Credit Suisse afferma di “non potere commentare i suoi rapporti con potenziali clienti”, ma di avere adottato le misure rese possibili dalle regole.
Il Guardian puntualizza però che, se è vero che alcuni conti risalgono agli anni ‘40 del ‘900, i due terzi sono stati aperti nel XXI secolo e una parte resta aperta ancora oggi.
(Fonte Forbes)