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    Io, come voi…

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    Non mi arrendo!

    Nato da poco più di un anno, i medici del Servizio Ospedaliero dichiararono, senza troppi giri di parole, che per me non c’era più nulla da fare: una forma acutissima e allora non curabile di gastroenterite non mi consentiva di assimilare cibo senza tuttavia togliermi la volontà e la forza di piangere giorno e notte.

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    “Potete portarlo a casa” proposero i medici dell’ospedale ai miei genitori “almeno lo avrete a portata di mano (e di orecchie…)  senza dover venire qui imponendovi massacranti turni di presenza. Purtroppo non c’è speranza, è una questione di giorni…”

    Non mi arrendo!

    Così, fra lacrime, invocazioni e interrogazioni del tipo “Che cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo?” fui riportato in quella casa che subito si riempì non di allegri e vispi scalpiccii infantili ma di un pianto estremo e dolente. Però ero a casa!

    Non mi arrendo!

    Iniziata così la mia annunciata ‘ultima settimana’ di vita, cominciai a inanellare giorni e notti indistinti, contrassegnati cioè solo da un lamentoso pianto, tanto insistente quanto inutile e senza finalità, se non quella di accompagnarmi fino in fondo.

    Non mi arrendo!

    La mia famiglia ‘allargata’, allora era presente in casa anche mia nonna paterna, incominciò dopo alcuni terribili giorni, intrisi di pianti e veglie, a mostrare qualche segnale di cedimento rispetto a quella compattezza iniziale che aveva fatto di ogni componete un sostegno forte e solidale per gli altri…

    Iniziò infatti, dopo qualche giorno, a sovrapporsi allo stato d’animo dei primissimi giorni una visibile stanchezza per privazione (di sonno) amplificata dall’obbligata inerzia di una attesa drammatica e impotente.

    Fece così capolino qualche timido rigurgito di vita indotto dall’irrinunciabile spirito di sopravvivenza degli esausti componenti della famiglia, disperatamente alla ricerca di qualsiasi ma ‘ineludibile’ pretesto per allontanarsi da casa.

    Non mi arrendo!

    Passarono in tal modo alcuni giorni, immersi in una angoscia crescente e stremante, se non altro per la consapevolezza che ogni ora trascorsa non poteva che avvicinare il momento del grande buio, almeno per quanto riguarda il nostro mondo terreno.

    Giunsero così, fra dolore, ansia e disperazione, il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo giorno, non disgiunti da qualche inconfessato interrogativo in merito al mio evidente attaccamento alla vita, pur se disconosciuto dalla scienza medica (di allora) che aveva emesso il suo inappellabile verdetto. Prese allora a farsi largo, nelle menti esauste dei miei familiari, qualche considerazione apparentemente inopportuna ma del tutto comprensibile se si tiene presente il contesto: “Ma dove trova’ l’energia per agitarsi e lamentarsi senza sosta? Non mangia nulla da giorni e giorni…”

    Non mi arrendo!

    !Beh, per il fatto che ora stia scrivendo per raccontare questo mio travagliato approccio alla vita, è ovvio che in realtà io ne sia venuto fuori autonomamente e per uno di quei processi inspiegabili che talvolta accadono, nei momenti drammatici della vita di molti se non di tutti.

    Quello che è certo, comunque, è che da allora mi è rimasto appiccicato, come una seconda pelle, un vizio che non sono mai riuscito, poi, a togliermi: il vizio, come si dice, della speranza!

    Roberto Timelli

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