Se dovessimo fare un breve (anche un po’ superficiale) excursus del pensiero nell’ occidente, potremmo riassumerlo così:
in epoca greca l’uomo, come entità di natura si pone come osservatore e ne estrapola le leggi immutabili che “nessun uomo e nessun Dio fece”;
col cristianesimo l’uomo viene posto al vertice del “creato” e si passa dalla contemplazione alla categoria del dominio sulla Natura.
Ma ancora più interessanti sono le conseguenze che queste epoche hanno prodotto nella “psicologia del peccato”.
I greci avevano già sdoganato tutte le miserie umane inserendole nei miti o leggende, e da osservatori intelligenti quali erano, non avevano nessun bisogno neppure di “tollerare” le diversità perché ritenute anch’esse espressioni della Natura. Il “peccato” tuttavia esisteva, anche se non in senso cristiano del termine, e consisteva nel porre l’interesse dell’individuo prima della città. L’uomo, per i greci, aveva senso solo se “in relazione” all’altro. E chi pensa di poter vivere solo “o è bestia, o è Dio.”
In seguito il cristianesimo ha “vinto” sulla grecità perché ha regalato all’uomo la vita eterna, stravolgendone definitivamente la visione ciclica in cui la Natura pretende la morte per generare la vita.
Ma una fra le più grandi conseguenze del cristianesimo è stata l’ideazione del peccato. Da esso è stata fondata la stessa struttura della giurisprudenza moderna. La dominanza dell’intenzione sulla fattualità ha cambiato definitivamente i codici di giudizio, tanto che un omicidio (uguale nel risultato fattuale) può essere giudicato come colposo, preterintenzionale, premeditato. Non si giudica più il fatto in sé ma l’intenzione. Poiché l’intenzione non è oggettivamente sindacabile (interioritate hominis) ecco che per limitare al massimo la conflittualità sociale, fine ultimo di ogni regola civile, diventa rilevante anche il timore di Dio a cui nessuno può sottrarsi (a differenza della legge degli uomini). Si passa dalla visione greca in cui l’obiettivo era la salvezza della città, intesa come convivenza secondo le leggi di natura, alla salvezza dell’anima (propria).
Il cristianesimo infatti definisce incontrovertibilmente la centralità dell’uomo e la sua salvezza (della propria anima), rispetto alla società. È stato un cambiamento epocale che ha prodotto come conseguenza il senso di colpa, prima che la colpa. Così si è passati dai miti greci che insegnavano le regole e le miserie umane ai precetti religiosi. I comandamenti. La religione si è sostituita perfettamente e con i suoi insegnamenti ha gettato le basi di quella che è rimasta per millenni la nostra coscienza condivisa. Ci ha dato quella che consideriamo la nostra morale. Ma adesso? Fa ancora paura il giudizio di Dio? Ci lusinga ancora la promessa della vita eterna? No, non più. Non alla maggioranza, almeno.
Ecco il significato dell’espressione di Nietzsche: “Dio è morto”. È morto perché non fa più storia. Se levo la parola “Dio” dal medio evo, dove l’arte è arte sacra, la letteratura parla di inferno e paradiso, posso ancora capire la sua storia? No.
Ma se levo la parola “Dio” oggi? Riconosco ancora l’epoca? Certo, ma provate invece a togliere la parola denaro, o tecnica.
Questo mutamento ha portato alla sostituzione del senso di colpa col senso di inadeguatezza. La nostra identità sociale è sempre subordinata all’appartenenza, ma poiché quella religiosa ha lasciato posto a quella sociale, se non siamo adeguatamente “collocati” non troviamo scopo alla nostra esistenza, e poiché il futuro non è più una promessa (vita eterna) non retroagisce come motivazione, lasciandoci vittime di quello che Nietzsche intuì cent’anni fa e chiamò nichilismo.
Ora la nostra più impellente necessità è riuscire ad essere “funzionari di apparato”. Un apparato talmente asservito tecnologicamente che invece di averci aumentato la libertà ci ha reso vittime e schiavi della stessa tecnica, talmente veloce da non consentire all’uomo di prevederne le conseguenze.
Sono conscio del fatto che non ho tracciato un bel quadretto, e anche del fatto che non ho prospettato alcuna soluzione.
Così, se proprio dovessi spingermi a fare delle previsioni, seguendo la mia predilezione per la visione greca del mondo, direi che dovremo abdicare dal nostro ruolo dominante e ricominciare a considerarci “dentro” la natura, così potremmo inserire anche tutto il nostro processo auto-distruttivo come parte integrante della stessa. Non è da escludere, infatti, che la Natura abbia necessità di ripetere il ciclo della generazione umana fino a quando non ne uscirà una specie degna della propria permanenza. Non dimentichiamoci che rispetto alla vita dell’universo l’uomo avrebbe potuto nascere ed arrivare fino a qui 6500 volte, consecutivamente.
A parziale consolazione ci vengono incontro le ultime teorie della fisica quantistica che ipotizzano un mondo probabilistico dove questa non è che una delle possibili realtà. E dove la realtà stessa è definita solo come interazione “fra le cose”, dove l’uno non esiste in assenza dell’altro (!).
Greci, gente seria!
Nota. Molte di queste considerazioni sono frutto di alcune conferenze del prof. Galimberti a cui ho avuto il piacere di assistere.
I riferimenti alla fisica quantistica sono liberamente estratti dalla lettura dei libri di Carlo Rovelli: Helgoland (ed. Adelphi); La realtà non è come ci appare (ed. Cortina Raffaello); Sette brevi lezioni di fisica (ed. Adelphi).