L’accordo Conte-Grillo che ha posto fine, per il momento, alla guerra intestina nel Movimento, lascia aperti due problemi di convivenza, uno interno e uno esterno. Quello interno riguarda il compromesso tra Fondatore e “Avvocato del popolo” che finalmente assume il ruolo di leader. Il testo del comunicato letto domenica dal reggente Crimi non risolve del tutto il punto della “diarchia”: Conte conquista piena titolarità sulla linea politica, ma Grillo non è escluso. Inoltre è sparita l’esclusiva sulla comunicazione, che per il Movimento è tutto o quasi tutto, e l’ex-premier rivendicava per sé.
Conte deve aver compreso che imporre il silenzio a Grillo era una pretesa irrealizzabile, prima ancora che incomprensibile, dal momento che Grillo è un attore consumato ed è in grado di comunicare anche nella dimensione del muto, con gli occhi, con la faccia, con il corpo e con il pensiero, come s’è visto tra l’altro nella controversa vicenda della riforma della giustizia in cui i ministri, approvando il testo della Guardasigilli Cartabia, sia pure dopo qualche modifica, hanno disatteso le indicazioni dei gruppi parlamentari e dello stesso Conte, ma non di Grillo, contrario a qualsiasi fibrillazione del governo.
Inoltre il Garante non avrà interesse alla gestione del giorno dopo giorno: e anche questo dovrebbe rassicurare Conte, che cercherà la ricomposizione del rapporto personale con l’ex-comico. Il secondo problema riguarda Conte e Draghi. Qui si tratta di riconoscersi vicendevolmente la legittimazione che fin qui è mancata.
All’atto della formazione del governo di unità nazionale Conte rifiutò di entrare a farne parte, come Draghi gli aveva proposto, perché convinto che quella che lo aveva portato alle dimissioni non era stata una normale crisi di governo ma un “conticidio”, cioè un complotto.
Ciò ha portato Draghi a cercarsi altri interlocutori, a cominciare da Grillo e Di Maio, in un Movimento rimasto sostanzialmente acefalo. Adesso i due si troveranno faccia a faccia e proveranno a ragionare insieme. Ma sarà difficile che, approfittando del semestre bianco in cui le Camere non possono essere sciolte, Conte si spinga a portare M5S fuori dal governo, perché in quel caso le divisioni apparentemente sanate dall’intesa sulla “diarchia” potrebbero riproporsi.
(Fonte La Stampa)